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QUALI CURE PER I TERRITORI STORICI?
Anche per motivare pertinenti ricordi delle alluvioni del 4 XI 1966 (Firenze, Grosseto, Triveneto) sono possibili riflessioni che, motivando la riduzione dei continui “ri-restauri”, soprattutto orientino a rendere il fare umano integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo1? Pietro Segala Istituto Menosyne In Italia, dell'Esposizione Universale del 2015, già si cominciò a parlare almeno tre anni prima che, nel 2006, il governo italiano proponesse la candidatura di Milano al Bureau of International Exposition (l'organizzazione non governativa internazionale che, da Parigi, gestisce le esposizioni universali). L'EXPO è considerata grande occasione soprattutto perché coinvolge molti Stati e presuppone una grande presenza di visitatori. MILANO-EXPO 2015 ha per tema NUTRIRE IL PIANETA – ENERGIA PER LA VITA. Quanti pensano che – non solo per MILANO-EXPO 2015 – queste affermazioni attengano anche il PATRIMONIO D'ARTE E DI STORIA? Quasi nessuno. Nonostante si sappia che il PATRIMONIO D'ARTE E DI STORIA NUTRE L'INTELLIGENZA UMANA e quindi è la migliore ENERGIA PER LA VITA. È la carenza di un tale pensiero a rendere tale argomento estraneo pure a MILANO-EXPO 2015. Eppure: quanti Stati chiedono all'Italia prestiti di opere d'arte per le loro esposizioni? E, quanti visitatori vengono in Italia ogni anno per vedere di persona il suo patrimonio d'arte? Allora: perché non dovremmo considerare il nostro PATRIMONIO D'ARTE E DI STORIA una EXPO permanente? Orientamento che piacerebbe soltanto agli innamorati della società dei consumi? Forse. Ma, favorirebbe la conservazione del nostro PATRIMONIO D'ARTE E DI STORIA? Questa EXPOARTE-ITALIA, infatti, sarebbe quanto di più coerente con il consumismo (anche di cultura) che continua a qualificare l'essenza dei nostri giorni pure in questi anni di crisi. Non sarebbe tempo, allora, di cominciare a privilegiare – quale premessa indispensabile alla conservazione dell'arte – la tutela della nostra maggiore risorsa, sopratutto per le valenze della società civile, come aveva più volte ribadito proprio Giovani Urbani2? QUALE CULTURA PER USCIRE DAL CONSUMISMO? Sempre più spesso – soprattutto in questi anni di crisi ancora incompresa3 – si sente dire che saremmo in un “nuovo tempo”, almeno rispetto a quello che ha accompagnato la cosiddetta “rivoluzione industriale”. Eppure, non pare di vedere grandi novità, se non nel prevalere dell'importanza dell'informazione, manifestata soprattutto nella progressiva spettacolarizzazione e commercializzazione di tutto, particolarmente di quanto lussuoso e prestigioso. Informazione, spettacolo e commercio, infatti, paiono vissuti come le principali potenzialità di questi anni, peraltro sempre più segnati da una crisi finanziaria, che ha rivelato la globalità della crisi delle diverse forme di produzione, nonostante la martellante informazione che ne ha motivato e accompagnato la crescita (e la motiva e l'accompagna). 1 Domanda che è auspicio di discussione sul tema in sé, ma soprattutto per verificare se, dopo quarantanni, abbiano ancora validità le proposte definite “disperse” dallo stesso aurore: Giovanni Urbani. Il quale, fin dal 1973 come è noto, postulava la necessità di provvedere in maniera concreta alla conservazione d'un patrimonio d'arte che, almeno in Italia, è coesteso all'ambiente come sua peculiare componente qualitativa; e, più avanti (nel 1981) invitava a riflettere su un'epoca in cui l'uomo comincia ad avvertire la terribile novità storica dell'esaurimento del proprio ambiente di vita, nel quale certi valori, come appunto l'arte del passato, possano maturare la possibilità che il fare umano sia integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo. Le citazioni (richiamando il nome dell'autore e il n. della pag.) sono tratte da: GIOVANNI URBANI, Intorno al restauro, a cura di Bruno Zanardi, Milano, Skira, 2000. 2 Non si può non citare, in riferimento alla società che stiamo vivendo e costruendo, un libro si quarant'anni fa: JEAN BAUDRILLARD, La società dei consumi, Bologna, Il Mulino, 1974. 3 E, perciò, anche sprecata. Cfr.: FABIO DONATO, La crisi sprecata, Roma, Aracne Editrice, 2014. 1 L'informazione fa sì che le persone si motivino a processi diversi da quelli usuali4. Nuovi processi che spettacolarizzano tutto anche grazie alle più raffinate forme di comunicazione, proposte mediante rappresentazioni appositamente create per meglio trasmettere i valori più congrui al consumismo materiale e culturale. Peraltro, gli spettacoli e le informazioni – pur attirando grandi folle – raramente riescono a produrre utili finanziari. Non essendo considerati essenziali alla vita, devono essere offerti gratuitamente, o con costi simbolici. Senza sostegni economici esterni, pertanto, non riescono a vivere. Se continuano a prosperare è certo per motivi diversi da quelli finanziari. Forse, è anche per questi “motivi diversi” che sono sempre più accostati alla cultura, anzi considerati essi stessi prodotti di cultura. Come è sempre avvenuto nei regimi principeschi e autoritari: nei quali “il popolo” era (è?) sempre considerato “insieme di consenzienti-sudditi”. Alla cui “obbedienza-consenso” si sono sempre offerti panem et circenses (quando il circo era sede dei più vari spettacoli, tra i quali prevalevano declamazioni e rappresentazioni attinenti pure le condizioni della vita civile). Pur incentivati dai più svariati “media”, i commerci – in tempi di crisi come quelli che stiamo vivendo – appaiono penalizzati dalle diminuite disponibilità di molti potenziali acquirenti, sempre meno motivati a spendere: o per l'urgenza di risparmiare, o per mancanza di mezzi per acquistare, o per carenza di oggetti di sufficiente lussuosità e/o rappresentatività. Se – nel “Corriere della sera” del 1° Dicembre 2013 – Giuseppe De Rita, presidente del CENSIS, ha scritto che tutto sta cambiando, ma nessuno sembra accorgersene, una qualche ragione potrebbe pur esserci. Forse perché tutti abbiamo presente il modello sociale della sempre più intensa produttività di “beni di consumo”. Con la conseguenza che ciò che non è “consumabile”, non appare “bene”; perciò lo si ignora, o lo si distrugge: è quanto è successo particolarmente nei due secoli del trionfo dell'industrialismo meccanicistico e che oggi continua a succedere con il trionfo delle cosiddette “startup” (che paiono il nuovo modo di impiegare capitali per produrre strumentazioni informatiche e telematiche per rendere meglio acquistabili gli strumenti della comunicazione individuale e/o collettiva). L'industrialismo meccanicistico ha incentivato i consumi materiali. L'industrialismo tecno- informatico sta incentivando i consumi culturali, soprattutto grazie alle proposte dei media dell'informazione e della divulgazione, che propongono le attrattive diffuse nelle molteplici realtà del mondo. Tutti sappiamo, peraltro, che i mezzi di informazione non producono nuove conoscenze. Semmai, possono meglio diffonderle e ridurre i tempi per conseguirne di nuove. Le nuove conoscenze si conseguono con appropriati (e non sempre facili) processi di studio, documentazione, di ricerca, di dialogo. Processi che possono essere facilitati – o meglio sviluppati – anche grazie a mezzi tecnici e tecnologici sempre più nuovi. Ma gli obiettivi che motivano studi e ricerche possono essere tanto meglio conseguiti quanto maggiore è la coerenza metodologica rispetto agli stessi obiettivi perseguiti. La “cultura” nasce e cresce con una tale complessa realtà di obiettivi e processi. Cultura che, pur essendo sempre orientata ad accrescere coscienza di sé e del mondo, non sempre può essere funzionale al consenso di persone coscienti del proprio sé soprattutto in riferimento a idoli, ideologie e/o condizioni di subalternità. Soltanto senza idoli, senza ideologie e senza subordinazioni c'è cultura. Benché idoli, ideologie e subordinazioni possano dare valenza sociologica alla cultura. La dimensione sociologica delle cultura è vissuta da tutti (da qui la sua importanza anche per l'economia delle produzioni e dei consumi). La valenza conoscitivo-sapienziale della cultura è di chi la costruisce (e/o la condivide) con studio, ricerca, documentazione, dialogo. È soprattutto la cultura conoscitivo-sapienziale che lascia segni di conoscenza che qualificano il mondo umano e i luoghi di vita delle persone. La valenza sapienziale della conoscenza è determinante per non esaltare il sapere soltanto quale somma di nozioni: l'enciclopedismo può essere dato significativo per la diffusione del conoscere, ma può essere anche dato ideo-logi- 4 Cfr.: VANNI CODELUPPI, La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società, Torino, Bollati Boringhieri, 2007. 2 co, che può dare “immagine-apparenza”, ma che non dà orientamenti civili e etici per la vita; Socrate era sapiente soprattutto perché, “sapendo di non sapere”, era motivato a scoprire (e far scoprire) le logiche e i significati impliciti alle molteplici conoscenze dei sofisti impegnati a influenzare pensieri e orientamenti delle persone. Pur muovendo da limitate conoscenze, anche la saggezza di molti “vecchi” del passato ha lasciato segni che, pure umanizzando molti territori rendendoli coltivabili e abitabili, hanno maturato giovani alla vita. Il sapere non è soltanto conoscere: è insieme di conoscere e fare e riflettere adeguati a dare senso alla vita e, in essa, motivare i valori del dialogo e della responsabilità. Allora, possiamo chiederci: “cultura” può essere quanto dà senso e volto al mondo, abitato da persone aperte al dialogo e pronte a farsi carico delle responsabilità della vita? Se così fosse, la responsabilità civile sarebbe piena e fattiva soprattutto quando orientasse ciascuno non alle logiche del consumismo, ma agli impegni coerenti con la già richiamata urgenza che il fare umano sia integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo. In mancanza di questa cultura, vediamo che il fare umano diventa distruttivo di tutto. Ed è proprio con questa cultura che vediamo l'arte farsi anche segno che coniuga insieme i valori della conoscenza-sapienza e le urgenze del fare umano che attivano produzioni, commerci, spettacoli. Quindi: cultura quale sapienza di vita. Ossia: insieme di processi che sviluppano equilibrio e non prevaricazioni; equilibrio e non invadenze; equilibrio e non soprusi; equilibrio quale fondamento del rispetto della dignità di ogni persona indipendentemente dalle possibilità di contribuire ai processi di consumo. Insomma: cultura dell'equilibrio per l'equilibrio delle condizioni di vita; cultura dell'equilibrio che matura con la saggezza delle persone e si trasmuta nell'equilibrato (non consumistico) uso delle risorse (materiali e culturali) di ogni territorio; con l'ordinario esito di accrescere le capacità equilibratrici delle persone in territori ricchi di storia e d'arte. È la diffusione dei segni di storia e d'arte a rendere i territori meritevoli di cura, non di sopraffazioni. IL PATRIMONIO DI STORIA E D'ARTE NEL TEMPO “POST-CONSUMISTA” (?) DELLA “PAIDECOLTURA” In questi nostri anni, segnati anche dalla apparente crisi del consumismo, tutti (continuando a non avvertire la terribile novità storica dell'esaurirsi del proprio ambiente di vita) pensiamo soprattutto ai processi più funzionali alla produzione di oggetti sempre più nuovi e sempre più variegati, naturalmente anche mediante l'impiego di materiali diversi da quelli fin qui usati per le grandi produzioni industriali. Invece, continuiamo a ignorare che, da secoli, ci sono risorse funzionali ad un diverso tipo di industriosità, fondato sul corretto uso di risorse non materiali, quindi ben diverse da quelle maggiormente incentivate dalla cultura dell'antico (sette-ottocentesco) e nuovo (“tecnologicamente avanzato”) “meccanicismo”. Pensare l'industriosità umana soltanto in funzione produttivistica (e finanziariamente redditizia) allontana dalla considerazione di risorse diverse da quelle fin qui usate, o venute in uso, per le esigenze delle produzioni di strumenti tecnologici (risorse estratte dalla terra e trasformate da macchine-tecnologie sempre più complesse). Soltanto con specifico riferimento a valori, come appunto l'arte del passato (passato che comprende anche i segni di storia che – benché inavvertiti – danno maggiore senso alla vita di oggi), può diventare realistico ipotizzare produzioni che compensino le attività umane prima che il capitale monetario. Finché a quei valori non si vorrà assegnare anche il ruolo di riconoscere (quindi, anche compensare) l'agire poietico delle persone, resterà incongruo pensare “imprese di operatori di cultura”. Finché questa realtà resterà identica a se stessa (pur nella variazione di talune forme marginali), alla cultura si riconoscerà sempre e soltanto valenza sociologica. Con la conseguenza che continuerà a restare di esclusiva competenza del Principe e/o dei suoi Mecenate (che, oggi, sono sempre più incentivati a usare parte significativa di quanto dovrebbero allo Stato per mantenere il loro “stato” di “cittadini”). Con l'esito che gli operatori di cultura dovranno continuare a essere (e a sentirsi) “dipendenti”: senza poter operare 3 da titolari di imprese che, producendo e diffondendo cultura, maturino ogni persona in coscienza e responsabilità. Ruolo che possono svolgere anche da dipendenti, certo; ma in condizioni sempre subordinate e soltanto finché le forme giuridico-finanziarie lo consentano5. Forse, come già detto, sarebbe tempo di non continuare a sprecare la crisi che stiamo vivendo dal 2007. Infatti, potrebbe essere tempo di prendere atto che – proprio come l'aria ci mantiene in vita quasi senza che ne avvertiamo la presenza – il patrimonio di storia e d'arte orienta sempre i nostri modi di essere (e, quindi, anche fare e di pensare). È soprattutto questo dato ad assegnare, al patrimonio di storia e d'arte, la qualifica di “risorsa”. Per di più: risorsa coestesa all'ambiente come sua peculiare connotazione qualitativa. A ben guardare, è il patrimonio d'arte e di storia che connota ogni momento della nostra vita e la orienta a vivere valori che ci appaiono naturali, mentre sono valori di cultura. Valori che ci consentono di meglio capire (e conoscere) la storia, la cultura, i modi e le condizioni di vita che le hanno motivate e rese possibili. Ma anche di meglio capire il senso della vita e di meglio orientarci se si voglia costruirsi un futuro meglio vivibile, anche perché più cosciente della complessità dell'essenza di ogni essere. Queste peculiarità motivano ad assegnare al patrimonio d'arte e di storia anche le funzioni di “nuova terra” che possa consentirci di dare nuova vita all'intelligenza di sé e del mondo? Se così fosse, il patrimonio d'arte sarebbe “nuova terra” nella quale – rispondendo al mandato biblico di riempire la terra e di soggiogarla (Gen, 1-28) – l'umanità ha sviluppato e sviluppa opere significative per la peculiarità dei messaggi, per la peculiarità dei materiali costitutivi, per la peculiarità delle lavorazioni. E, se il patrimonio d'arte e di storia fosse davvero una tale risorsa, come si dovrebbe saper accostare (e utilizzare) questa “terra nuova”? Con gli antichi criteri della coltivazione (già propri della prima agricoltura), o con gli ugualmente antichi criteri dello sfruttamento (propri della prima caccia-pastorizia – cfr.: Gen 4,2 – innovata dall'industrialismo meccanicistico)? È dagli Anni '60 del '900 che questo problema – per quanto poco chiaramente espresso e scarsamente avvertito – sta davanti alle società organizzate che vivono in territori nei quali il patrimonio d'arte è coesteso all'ambiente come sua peculiare connotazione qualitativa. Non potrebbe essere letta anche da questa visuale la contestazione studentesca degli Anni '60 e '70 del secolo scorso? Purtroppo, la permanenza, anche nel '900, delle ideologie ottocentesche ha impedito ai movimenti studenteschi di quegli anni di capire la realtà che stavano vivendo e, quindi, ha orientato le loro contestazioni (di “nuovi paidecoltori”) a dissolversi nel duplice esito del consumismo e del brigatismo rosso-nero. Conseguente è stata l'ignoranza di ogni orientamento alla paidecoltura e il prevalere dell'approccio al patrimonio storico quale “nuovo petrolio” e/o quale “giacimento” da sfruttare con nuovi processi operativi motivati alla “trasformazione” anche di questa “nuova risorsa”. Trasformazione da conseguire in analogia con le lavorazioni delle cosiddette “materie prime”, già assunte a risorsa fondamentale dell'industrialismo meccanicistico. Il tutto, con la convinzione che potesse essere ordinario ottenere, da tale nuova trasformazione, esiti da proporre ai migliori offerenti. Da qui, l'ipotesi di incrementare la documentazione del patrimonio d'arte soprattutto per sostenere la produzione e la diffusione di nuovi strumenti tecnologici applicabili a qualsiasi altro oggetto. Da qui, pure la motivazione agli incentivi al turismo cosiddetto “culturale” senza riferimento alcuno alle condizioni della durabilità del patrimonio; condizioni che l'invadente “turismo di massa” avrebbe comunque alterato. Da qui – in coerenza con le proposte dell'estetica ottocentesca e dello storicismo novecentesco – la rapida trasformazione del restauro da antico processo di mantenimento delle potenzialità d'uso delle diverse produzioni umane (inclusi gli oggetti d'arte), a nuovo processo di rivelazione delle connotazioni storico-estetiche 5 Il fenomeno rappresentato dai pensionati, che traducono in attività le loro competenze professionali, attesta pure la tendenza di ogni persona ad assegnare valenza poietica alle proprie competenze, soprattutto in condizioni di auto responsabilizzazione e pure in diminuzione dei compensi fruiti da “dipendente”. 4 di ciascuna opera: anzitutto dipinti, sculture, architetture, ma fino a assegnare – di fatto – valore di opera d'arte agli strumenti d'ordinario uso quotidiano per il lavoro, lo svago, il gioco... MOLTO DA AMMIRARE, POCO DA SALVARE È stata questa “cultura” (quanto colta?) a non aver saputo cogliere quanto l'urgenza conservativa dovesse essere prioritaria e, soprattutto, riguardare il contesto ambientale prima ancora che le singole opere. È stata questa realtà a non rendere avvertibili le peculiarità delle proposte di chi (il riferimento più immediato è ai testi, scritti tra il 1967 e il 1987, dal citato Giovanni Urbani) auspicava nuova cultura e nuova scienza (e nuova “passione” per il patrimonio d'arte) con l'obiettivo di poter avviare studi e esperienze adeguati a ridare fondamento e efficacia poietica all'antica manutenzione ordinaria, arricchendola delle potenzialità delle nuove strategie della programmazione scientificamente esperita e affettivamente praticata e controllata6. Così – sempre in omaggio alla “cultura” corrente del momento – è continuata la selezione tra oggetti ritenuti di pregio e oggetti considerati poco, o per nulla, significativi. Per altro verso, quasi improvvisamente, le antiche ideologie tuttologiche hanno dato nuovo pregio a oggetti fino a ieri considerati importanti per il lavoro, ma non per accrescere l'estetica degli ambienti di vita. Contestualmente, la storia (riqualificata quale insieme di “documenti” invece che “maestra di vita”), ha cominciato a ritenersi più importante di tutto, a cominciare dall'estetica, fino a orientarla a manifestarsi soprattutto mediante la “storia dell'arte”. Da questa realtà non poteva venire alcuno stimolo alla “cura quotidiana” del patrimonio d'arte, ma soltanto alle sempre più frequenti “inaugurazioni” di nuovi musei, di nuovi restauri (quasi sempre “ri-restauri”), di nuove mostre (talvolta “mostruose” ma quasi sempre maggiormente “fruite”). Il tutto accompagnato da sempre nuove pubblicazioni iperillustrate (con la riserva mentale che le fotografie possano incentivare soprattutto le visite alle mostre, piuttosto che gli approfondimenti culturali, spesso proposti pure da testi iperillustrati). Con questa realtà, è spiegabile, assieme al declino delle manutenzioni, la mancanza delle permanenti-pertinenti regolazioni delle condizioni ambientali che, con la stabilità della temperatura (per evitare dilatazioni e contrazioni), assicurino: l'adeguamento della pressione (per ridurre i movimenti d'aria che portano inquinanti e microrganismi) e la riduzione delle variazioni di umidità (per ridurre alterazioni dei materiali costitutivi delle opere d'arte). Altrettanto spiegabile, in questo contesto, anche lo scarso orientamento a limitare le illuminazioni (che favoriscono le decolorazioni e la crescita di microrganismi che, a loro volta, deteriorano pellicole pittoriche e materiali costitutivi). Così, anche i processi attinenti l'arte sono diventati innovanti processi di consumo e non oggetti di nuova coltivazione da parte di nuovi operatori culturali capaci di curare il patrimonio con strumentazioni e strategie pertinenti alla struttura, composizione e storia dei singoli elementi che contribuiscono a manifestare la complessa realtà di ogni ambiente umanizzato. Sembra che, in questi anni di crisi finanziaria, il consumismo vada affievolendo la sua efficacia di processo finale degli intensi procedimenti di trasformazione del ruolo e della composizione del patrimonio, ma ancora non lascia spazio a forme diverse di accostamento del patrimonio stesso: forme quali potrebbero essere i processi della “ordinaria cura” che si fa “paidecoltura”7. La quale è coltivazione delle risorse di cultura comprendenti anche le 6 Non solo. Non è proprio proponibile che Giovanni Urbani abbia postulato anche un nuovo sistema sociale di natura poietica e non competitiva, più vicina al “messaggio d'amore” evangelico che alle “leggi” dell'Antico Testamento, oltre che lontano dal capitalismo arraffone? Conseguentemente, un sistema sociale fondato sulla persona (sui figli di Dio?) quale essere pensante e responsabile di sé (dei propri limiti-potenzialità) e del mondo, assertore di “cura” per ogni realtà vitale anche per dare continuità al mandato creazionale della Genesi... Potrà esserci chi – soprattutto tra i credenti nel Cristi Risorto – scelga di sviluppare pure un'ipotesi fin qui apparentemente infondata? 7 In analogia con “agricoltura”, si compone il lemma greco “paideia” (assunto nel senso più ampio di “cul - tura in formazione”) con “coltura” per indicare l'orientamento operativo più coerente per l'auspicata (e sempre più citata) società della conoscenza (ma, non sarebbe preferibile la dizione “società cognitiva”: società che postula la conoscenza quale frutto di “ricerca” e i cui esiti si diffondono con l'informazione?). 5 molteplici forme di cultura diverse dalle opere d'arte. Eppure, da anni si parla di economia della conoscenza (addirittura, ci sono stati Premi Nobel proprio per questa specifica economia) e, per restare in Italia, da un quarto di secolo si pubblica una rivista dal titolo Economia della cultura. Perché, pur con tali precedenti, non c'è chi parli di “coltivatori di cultura” 8? Perché il patrimonio d'arte non è ancora un capitolo significativo dell'economia della conoscenza? Perché anche tra i beni comuni, oggi sempre più spesso richiamati, questo patrimonio non appare ai primi posti? Perché i problemi del governo dei servizi di cultura sono considerati prioritari rispetto ai problemi della fattiva congruità dei medesimi servizi? La cultura moderna, da Cartesio in poi, ci ha abituato a considerare “il metodo” fattore determinante della qualità dei processi e degli esiti delle attività umane. Purtroppo, nella pratica di ogni giorno, “il metodo” è diventato sempre più giustificazione degli “strumenti” utilizzati per pensare e per attuare progetti. Il primato del “metodo”, in tal modo, è diventato il primato, prima delle tecniche e, poi, sempre più delle tecnologie. Tecniche e tecnologie che sono approntate per le proprie potenzialità intrinseche, non per specifici e preordinati obiettivi di nuove conoscenze e di nuove produzioni. È a fronte di questa realtà che va richiamato quanto l'importanza del “metodo” non sia da correlare soltanto agli strumenti tecnico-tecnologici, ma alla complessità del reale sul quale si voglia (o con il quale si debba) operare. A giudizio di chi scrive, queste considerazioni, se fondate, impongono di ridare centralità alla qualità dei processi propri dell'agire umano, soprattutto quando vogliano maturare esiti e oggetti di cultura. Particolarmente, in una nazione come l'Italia, nella quale (lo si ripete, citando ancora Giovanni Urbani): il patrimonio d'arte è coesteso all'ambiente come sua peculiare componente qualitativa. Pertanto, il primo orientamento da maturare dovrebbe attenere proprio la nascita e lo sviluppo di una cultura che postuli e chiarisca come e perché la peculiare componente qualitativa di ogni territorio sia soprattutto il patrimonio d'arte. Se questo fosse vero, infatti, occorrerebbe sviluppare meglio pure la cultura che ha consentito di rendere attiva la nozione di “centro storico” e verificarne l'applicabilità anche alla nozione di “territorio storico”. Qui si pone soltanto il problema, benché – per ambiti territoriali caratterizzati dalla peculiare componente qualitativa dei materiali d'art e di storia – chi scrive ritenga fondata la qualifica di “territori storici”. DAI CENTRI STORICI AI TERRITORI STORICI Perché è ancora necessario richiamare che, pur con peculiarità diverse rispetto a un centro storico, ogni territorio è qualificato da molteplici opere progettate, realizzate e modificate nel corso dei secoli? Quindi, che, in ogni territorio, ci sono ambiti – naturali e coltivati – caratterizzati, oltre che dalle rispettive intrinseche valenze, anche dalle variazioni subitematurate nel tempo con ritmi e procedimenti del tutto peculiari? Perché continua a non essere ovvio osservare che ogni territorio è insieme di realtà diverse e multiformi, quasi sempre in continua variazione? Eppure, è noto che, in ogni tempo e nei diversi territori umanizzati, si sono sviluppate peculiari forme d'arte: peculiari per i messaggi, peculiari per i materiali, peculiari per le lavorazioni, peculiari per i committenti, peculiari per gli artisti, peculiari per la peculiarità dei tempi. Tutte peculiarità delle quali urge sapersi dare coscienza. Anche per questo, è importante la storia dell'arte: assieme ad altre storie (del costume, della vita civile, delle produzioni, delle tecniche, dei governi...) ci consente di meglio capire la cultura e le culture delle persone, dei gruppi sociali e dei tempi dei quali siamo figli troppo spesso inconsci. Considerato in questa valenza, almeno per chi scrive, il patrimonio d'arte è generatore di storia, non solo documento di storia: il futuro, quindi, starebbe soprattutto nelle valenze 8 Qualcosa di nuovo pare presente nelle “Linee guida per la riforma del Terzo Settore”, proposte dal Governo nel Maggio 2014, in previsione della predisposizione di una apposita Legge delega per il riordinamento di quanto attenga le potenzialità del volontariato. C'è da auspicare che non si trascurino le potenzialità delle possibili imprese di operatori culturali (paidecoltori) per la conduzione di servizi di cultura che, benché per propria essenza non perseguano utili finanziari, comunque dovrebbero poter assicurare i necessari compensi a chi li conduce con pertinente professionalità. 6 culturali della storia dell'arte. Particolarmente se la storia dell'arte fosse accostata, studiata e comunicata anche quale storia del rapporto dei gruppi sociali con la loro terra fatta di pietre, di legni, di animali, di vegetali, di acque, di venti, prima ancora che di artisti ritenuti più o meno grandi. In questa prospettiva, potrebbero trovare qualche migliore sviluppo ambiti di ricerca e di studio e di divulgazione che (soprattutto se finalizzati a esplicitare le conoscenze e le informazioni necessarie per la vita dei – e nei – territori storici) potrebbero attenere almeno: la terra e le sue storie; la terra soggetto di vita; il territorio sede di storia; la vita dei territori accostata quale oggetto di ricerca; la vita nei territori storici. Tutti ambiti di ricerca (quelli appena schematicamente elencati) che, postulando di non chiudere le indagini ai “centri storici”, fondano l'urgenza di promuovere ricerca per lo studio delle più ampie realtà territoriali, delle quali i centri abitati sono elemento sempre significativo, ma non esaustivo. Peraltro, sempre più direttamente coinvolti in ogni variazione territoriale, come – sempre pi spesso – accade con terremoti, inondazioni, alluvioni9. Riconoscere ogni territorio ambito di indagine storica è strategia funzionale a poter meglio comprendere la storicità dei centri abitati e dei molti componenti che costituiscono gli stessi abitati e i territori (naturali, coltivati, trasformati) dei quali ogni centro abitato è parte non sempre qualificante, come è il caso di non pochi recenti insediamenti di periferie urbane o di invasive costruzioni motivate soltanto dalle urgenze della “crescita economica” (che è processo che ha subordinato a sé la cultura dello “sviluppo civile”). Proprio per meglio evidenziare le carenze e le prospettive dello “sviluppo civile” di ogni territorio, è indispensabile integrare la ricerca storica con appropriata ricerca geografica. Soprattutto di geografia culturale, che è scienza che cerca di interpretare al meglio le variazioni dei rapporti tra le persone (singole e associate e organizzate) e le modificazioni che apportano agli ambienti del loro vivere quotidiano10. Le ricerche che indagano, insieme, i processi storici con le alterazioni delle realtà geografiche, sono studi-operazioni orientati a evidenziare sempre meglio quanto le variazioni geografiche di ogni territorio siano correlate alle culture e ai fatti storici che, in essi, si sono susseguiti nel tempo e quanto le culture e i fatti storici abbiano contribuito a non poche variazioni della geografia dei diversi territori. La dizione “territorio storico”, pertanto, dovrebbe essere considerata ovvia. Conseguentemente dovrebbe essere argomento di studio e di azione, anzitutto, delle scienze urbanistiche. Almeno quando si ponesse il problema dei processi di governo dei territori storici. Governo al quale, fino ad oggi, si è demandato l'uso del territorio e dei suoi molteplici componenti, ma non la salvaguardia dei contesti che danno senso ai diversi testi che, reciprocamente interagenti, costituiscono la geografia di ogni territorio e ne manifestano la storia. Problema già posto da Giovanni Urbani fin dal 1980 (URBANI, pagg. 31-32): È abbastanza sorprendente che la disciplina urbanistica non si sia mai preoccupata di chiarire a se stessa come e perché sia potuto accadere che la regola del gioco urbanistico sia stata, fin dall'inizio, e una volta per tutte, fissata in questa distinzione tra antico, rigido e immodificabile, e moderno: flessibile e perciò adattabile ad ogni esigenza socio-economica. Anche se in natura quasi ogni corpo complesso deve la propria esistenza alla possibilità d'una simile integrazione tra parti o funzioni rigide e flessibili, è pur vero che da nessun corpo del 9 Perché non si smetta di farne memoria, pare opportuno richiamare che, nei quasi 50 anni che, dai nostri giorni, separano il 4 Novembre 1966 (giorno dell'alluvione di Firenze, ma anche di Grosseto e del Triveneto), in Italia si sono susseguite almeno 70 alluvioni-inondazioni che hanno sconvolto città, paesi e territori di ogni Regione e che hanno causato quasi mille morti, decine di dispersi, migliaia di senzatetto. Ma, quanti sono stati gli elementi costitutivi del patrimonio d'arte e di storia distrutti o gravemente degradati? E quanto si è speso per recuperarne al meglio soltanto qualche parte di quel patrimonio d'arte coesteso all'ambiente? 10 Almeno due testi (non recentissimi, ma ricchi di riflessioni): PAUL CLAVAL, La geografia culturale, Novara, De Agostini, 2002; CNR – DIPARTIMENTO PATRIMONIO CULTURALE, Patrimonio culturale e paesaggio: un approccio di filiera per la progettualità territoriale, a cura di Maria Mautone e Maria Ronza, Roma, Gangemi Editore, 2009. 7 genere ci si può attendere che le parti o funzioni contrapposte subiscano una diversa vicenda evolutiva, cioè che le trasformazioni dell'una non influiscano sull'altra e viceversa. Da qui l'orientamento a ingiungere ai centri storici di mantenersi immobili e intatti non grazie ad interventi effettivi di conservazione, ma mediante una politica di divieti e di complicazioni burocratiche11. Potrebbe essere possibile ipotizzare un'urbanistica che promuova la valorizzazione culturale dei territori storici mediante la salvaguardi-conservazione dei contesti storici che ne manifestano la qualità di risorsa-patrimonio di cultura? Certamente! Se i governi degli Enti Locali smettessero di far approntare nuovi piani di consumo del territorio con nuova edilizia che sfigura anche l'edilizia storica (piani spesso resi spettacolari – prima della pratica attuazione – con apposite scenografiche rappresentazioni in scala). Quindi, anche urbanistica che, almeno a fronte delle cosiddette “aree dismesse” (peraltro, spesso già attivate quali “aree produttive” meno di un secolo prima), smetta di allearsi con l'edilizia per giustificarne l'abbattimento e, così, far luogo a nuova edilizia commerciale (che è molto probabile possa, tra meno di un nuovo secolo, risultare anch'essa “dismessa”). Un'urbanistica, quindi e finalmente, tesa a superare la logica della redditività finanziaria anche mediante il consumo dei territori storici! DAI PGT AI PCTS? Se queste pur disordinate annotazioni potessero avere qualche senso, allora dovrebbero essere, anzitutto, urbanisti e paesaggisti a porre i problemi che consentano di ampliare gli ambiti e di riconsiderare i processi della conservazione del patrimonio d'arte coesteso all'ambiente. Sarebbero proprio architetti e paesaggisti a dover assumere la responsabilità di avviare – anche coinvolgendo altre competenze e professionalità – la maturazione di una cultura (non solo urbanistica) con la quale maturare l'evoluzione dei Piani di Governo del Territorio in innovanti Piani di Conservazione dei Territori Storici. Piani nei quali dovrebbe avere priorità la documentazione funzionale al controllo delle condizioni idrogeologiche, meteoclimatiche e geostoriche che caratterizzano il territorio da conservare. Piani nei quali, conseguentemente, la salvaguardia dei contesti storico-ambientali si coniughi con l'indicazione degli ordinari processi di cura dei contesti nei quali si trovino (e sempre si trovano) diversi testi d'arte e di storia che qualificano le peculiarità culturali di ogni territorio storico12. La strategia qui ipotizzata non è facile, ma non si vede perché non possa essere sperimentata. E potrebbe esserlo già cominciando ad applicare i dettati della Terza Parte (dedicata ai “Beni Paesaggistici”) del D.L. n. 51 del 22/01/2004 (e successive modificazioni) denominato “Codice dei Beni Culturali e Paesaggistici”. 11 In costante riferimento alle “proposte” di Giovanni Urbani (anche con la presunzione di contribuire a limitarne la progressiva “dispersione”9, dopo aver richiamato le indicazioni delle cosiddette “Carte del restauro” (cfr.: Codici per la conservazione del patrimonio storico, a cura di Ruggero Boschi e Pietro Segala,, Firenze, Nardini Editore, 2006), gli operatori dell'Istituto Mnemosyne hanno cercato di divulgare la cultura dell'ordinaria manutenzione (cfr.: Non solo “ri-restauri” per la durabilità dell'arte, ebook che reca la Presentazione di Mons. Federico Pellegrini, Firenze, Nardini Editore, 2010) e, più recentemente: Dopo Giovanni Urbani, quale cultura per la durabilità del patrimonio dei territori storici?, ebook a cura di Ruggero Boschi, Carlo Minelli, Pietro Segala, con la Presentazione di Tomaso Montanari e scritti di: Andrea Alberti, Antonio Ballarin Denti, Dario P. Benedetti, Alessia Berzolla, Achille Bonazzi, Davide Borsa, Ruggero Boschi, Francesca Cardinali, Silvia Cecchini, Elisabetta Chiappini, Dario Camuffo, Marco Ciatti, Valeria Di Tullio, Dario Foppoli, Danilo Forleo, Pietro e Jacopo Galli, Silvana Garufi, Annamaria Giovagnoli, Stefania Guiducci, Paolo Mandrioli, Paolo Marconi, Carlo Minelli, Tomaso Montanari, Luigi Morgano, Maria Cristina Reguzzi, Sabrina Salvadori, Lanfranco Secco Suardo, Pietro Segala, Bruno Toscano, Ilaria e Valentino Volta, Bruno Zanardi, Firenze, Nardini Editore, 2014. 12 Ma quale e quanta ricerca (umanistica e scientifica) si è fin qui dedicata a chiarire le interazioni tra opere d'arte e ambiente, particolarmente in riferimento anche agli inquinanti che compromettono la durabilità del patrimonio d'arte e, contestualmente, anche la vitalità delle persone? Perché si continua a favorire l'apporto dei privati soltanto per i restauri e non, prioritariamente, per la stabilizzazione microclimatica e la salubrità degli ambienti d'arte? 8 Sarebbe modo per non continuare a tenere separate la conservazione dell'arte e la salvaguardia del patrimonio storico coesteso all'ambiente come sua peculiare connotazione qualitativa. Ma sarebbe anche modo per far uscire i processi della conservazione dell'arte dagli ambiti ristretti dell'antico storicismo, spesso alleato con l'artigianato più facilone. Per farli capaci, finalmente, di coniugare salvaguardia, scienza e amore per i “natii luoghi”, che troppe ricostruzioni hanno gravemente compromesso, quando non addirittura distrutto; contribuendo, così, anche a far disperdere il senso della “patria”. Che è tale anche quando i suoi territori vengono devastati da alluvioni, terremoti e inondazioni, ma che resterebbe più ambita se tali distruzioni potessero essere meglio prevenibili pure con cure sempre più ordinarie e pertinenti e – se non prevenibili – meglio riparate con materiali e tecniche sempre più adeguate a dare continuità materiale e storico-geografica al divenire di ogni opera umana. A mor patrio che dovrebbe sapersi far capace soprattutto di maturare anche innovanti infrastrutture che, del patrimonio, attivino e rendano operativa (URBANI, pag. 146) la conoscenza organizzata, intendendo per tale non una conoscenza fine a se stessa, ma che serva al conseguimento dei fini primari della tutela: a) la conservazione materiale del patrimonio storico-artistico; b) il potenziamento delle funzioni proprie di tale patrimonio come “risorsa produttiva” (in termini sia culturali che economici), e come “componente qualitativa” dell'ambiente. Quando si capirà che dare priorità al patrimonio d'arte quale componente qualitativa dell'ambiente, postula un sistema sociale nel quale il fare umano sia poietico e, quindi, integrativo e non distruttivo della bellezza del mondo? E quando, avendolo capito, si attiveranno processi coerenti per la durabilità di quella componente qualitativa che – in Italia più che altrove – ancora attesta la “intrinseca musealità” di ogni territorio-paesaggio? Brescia, 30 Maggio 2014 (Apertura di Pietro Segala) |
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QUALI CURE PER I TERRITORI STORICI? | città infinite | 9 years 10 months ago |